mercoledì 8 novembre 2006
Trasporto cavalli - La cultura del paradosso
Qualche giorno fa, girando per la città, ho visto una scritta che mi ha fatto riflettere.
Su una grossa camionetta blu troneggiavano le parole “Trasporto cavalli”.
L’avrò già vista altre decine di volte, però, prima, non ci avevo mai riflettuto...
Ho pensato: “Se usassi la macchina del tempo e portassi qui una persona nata 300 anni fa cosa penserebbe? Cosa penserebbe un uomo nato nel ‘700, che sul cavallo aveva costruito interamente il suo sistema di trasporto via terra, vedendo la scritta: “Trasporto cavalli”?”
Erano i cavalli a trasportarci, e ora noi, avendoli superati in velocità, li trasportiamo per diletto, per affetto, per sport.
Da 300 anni ad oggi il paradosso è andato dilagando.
Si faceva fatica, lavoro fisico, lavorando nei campi pere mangiare un tozzo di pane, ora si fa fatica fisica per diletto e per smaltire i numerosi tozzi di saporitissimo pane che possiamo permetterci.
I vestiti erano strappati per logorio, per povertà, oggi ci sono strappi modaioli, indispensabili ai seguaci delle nuove tendenze.
Le bucce di patate erano il cibo della disperazione, lo spauracchio della fame, oggi si servono fritte ed accompagnate da salse in “localini” trendy.
E la ciliegina sulla torta del paradosso qual è? Ma certo, il Reality Show. (leggi Reality Sciò)
In questi anni ne abbiamo visti di tutti i colori: tuguri, fattorie, ranch, isole deserte…
E’ la cultura di oggi, la cultura del paradosso, che porta nelle case una falso vero, un reale artefatto, situazioni costruite in cui si evolvono vicende pseudo-vere: vogliamo raccontarci una storia, e la vogliamo fortissimamente vera.
Le favole non ci bastano più.
Ci hanno nutrito a pane e avventura, la vita normale ci sembra troppo piatta per essere vera: ecco là che, per paradosso, diventa più credibile il falso.
Non è un bene, non è un male, è la volontà popolare, la mitizzazione dell’uomo qualunque, i momenti di gloria dei “ragazzi della porta accanto”.
E’ la favola del “It may happens to you”.
Persone qualunque come i vincitori delle varie edizioni del grande fratello.
Come Cristina, come Serena.
Che, sempre nel mood della favola vera, sognavano il principe azzurro.
Serena ripeteva spesso alle telecamere “Dov’è il mio principe azzurro? Come finisce la favola?”.
Un giovedì sera di qualche anno fa la neo-principessa, con strascico di tulle, è uscita dalla casa, ha baciato il rospo che si è trasformato in principe e ha raggiunto il castello-studio televisivo, dove la telecamera l’ha incoronata. Lacrime di commozione di una semplice ragazza che, toccata da una nuova bacchetta magica, l’antenna televisiva, si è trasformata in una principessa mediale.
Ed i signori e le signore del pubblico? Vissero sempre felici e contenti.
La realtà dei reality è falsa, ma sembra più vera della vita reale perché somiglia molto di più ai contenuti mediali che da sempre ci propinano (le fiction) e che quindi abbiamo imparato ad accettare come parametro sul quale misurare comportamenti, modelli sociali, ruoli.
Quindi, su questi modelli, abbiamo forgiato l’immagine della realtà ideale.
Quello che una volta era fatica ed era la vita reale si è trasformato in gioco e passatempo. Abbiamo appreso gli schemi e i meccanismi della fiction al punto di farli nostri.
Ed ecco che si compie il prodigio: ora che siamo pronti, che abbiamo metabolizzato le favole, che ne applichiamo i teoremi alla vita di tutti i giorni, ci regalano il reality show.
Non è più fiction, non è più una storia, sono gli intrecci di una vita vera, mediale ma reale.
Ma il pubblico, si sa, è subdolo ed esigente.
E anche il reality sembra non essere sempre formula di sicuro successo.
La domanda che mi viene sempre in mente in questi casi (quando una moda epidemica sembra volgere al termine o quanto meno al suo ridimensionamento) e che mi fa correre un brivido (di orrore) lungo la schiena è: “Cosa si inventeranno adesso?”
…tutto questo flusso di pensieri nell’istante in cui fissavo una camionetta blu, anonima, con la scritta trasporto cavalli.
Per una volta ha perfino taciuto l’animalista che è in me.
Non ho neanche pensato, come sempre faccio, che crudeltà trasportare così un animale, povero cavallo…
Forse perché mi è venuto da pensare che, tutto sommato, siamo più animali da branco noi.
E mi son detta “Beato te cavallo, che nun c’hai la televisione…”
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